Lazzaro SPALLANZANI, Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino, Pavia, Baldassare COMINI, 1792. Tomo I. Tav. II. Incisione su rame. Disegnatore: Giuseppe Francesco LANFRANCHI. Incisore: Faustino ANDERLONI.
Nell’estate del 1788, Lazzaro Spallanzani intraprese un viaggio nel Regno delle Due Sicilie. Il suo obiettivo era quello di visitare le regioni vulcaniche del Sud Italia – Vesuvio, Campi Flegrei, Etna e isole Eolie – e di raccogliere rocce e oggetti vulcanici per arricchire le collezioni del Museo di storia naturale dell’Università di Pavia. Spallanzani, inoltre, aveva studiato le opere vulcanologiche pubblicate nei decenni precedenti e riteneva di poterle aggiornare con nuove osservazioni sul campo. A tal fine, intendeva studiare i vulcani come si studiano le montagne, concentrandosi quindi sulla stratigrafia e sugli aspetti litologici, prestando particolare attenzione alla loro sommità e ai litorali delle isole vulcaniche, dove l’erosione del mare poteva rivelare la struttura interna. La terza fase del suo lavoro – dopo quella sui libri e la verifica sul terreno – era quella propriamente sperimentale, condotta su lave e materiali vulcanici portati in laboratorio, analizzati e sottoposti a esperimenti chimici sui processi di fusione e vetrificazione.
Il resoconto del suo viaggio e delle sue esperienze, insieme a quello relativo ad alcuni siti dell’Appennino emiliano, fu pubblicato in sei volumi tra il 1792 e il 1797 e fu tradotto in francese, tedesco e inglese. La relazione della visita all’Etna è contenuta nel vol. I ed è accompagnata da due illustrazioni. La prima è una riproduzione “migliorata” della tavola contenuta in Borelli 1670, opera che Spallanzani cita ripetutamente. La seconda, qui descritta, è invece una raffigurazione dell’aspetto che avevano la sommità e il cratere dell’Etna – opportunamente sezionati per mostrarne l’interno – al momento della visita nel settembre 1788.
Come attestato dallo scienziato reggiano, il disegno fu realizzato a partire da un suo schizzo dal pittore pavese Giuseppe Francesco Lanfranchi (1737-1800) – noto anche per le illustrazioni naturalistiche e anatomiche delle opere di Giovanni Antonio Scopoli, Antonio Scarpa e Johann Peter Frank (Jos. Lanfranchi Reg.a Uni.s Pap.a Pictor del.) L’incisione è invece opera del bresciano Faustino Anderloni (1766-1847), anch’egli attivo a Pavia e collaboratore di Scarpa. La tavola raffigura anche tre figure umane affacciate sull’orlo del cratere – una delle quali ha tra le mani un frammento di roccia, mentre un’altra è intenta a ritrarre la scena – da identificarsi probabilmente con Spallanzani e le sue due guide.
[pp. xxxvii-xxxviii] “Il cratere dell’Etna è stato da me delineato: i due altri di Vulcano, e di Stromboli sono il lavoro di un Pittore da me condotto su’ luoghi, al quale non meno si spettano i disegni, che rappresentano alcune altre delle Montagne vulcaniche, di che ragiono in quest’Opera. Solamente ognuno di tai disegni è stato ritoccato, anzi grandemente perfezionato dal Sig. Francesco Lanfranchi Pittore egregio della R. Università di Pavia”.
Bibliografia. Mazzarello 2018; Vaccari 1996; Vaccari 2006; Morello 1982; Bernardi e Stefani 2000; Carpanelli 1840, p. 30; Zatti 1993.
ROCCE E DEPOSITI
Scorie
Lava solidificata
Dopo la tav. I ripresa da Borelli, che raffigura l’Etna e i suoi dintorni, la tav. II si concentra sulla sommità del cono centrale e sulla sua composizione scoriacea. Spallanzani narra le difficoltà incontrate durante la salita dell’ultimo miglio, che “ripidissimo era ed insieme disegualissimo per le ammucchiate scorie che lo ingombravano, ivi cadute nell’ultima eruzione, le quali oltre il non avere fra se legamento di sorta, non erano per niente al suolo attaccate” (p. 225). Di conseguenza erano frequenti i movimenti franosi dei blocchi di scorie, che costringevano a retrocedere. La tavola mira a rappresentare la costituzione incoerente della sommità, composta da grossi frammenti di scorie e di lava solidificata, che danno un aspetto scabroso anche all’orlo del cratere (B):
[p. 229] “Gli orli superiori del cratere, fattone giudizio con l’occhio, girano attorno un miglio e mezzo, e formano un ovale che ha il maggior diametro dall’est all’ouest; e per essere là e qua sdruciti e mezzo diroccati, appajono come dentati, e sono que’ denti altrettanti enormi scaglioni di risaltanti lave e di scorie. Le interne pareti della caverna ossia del cratere, secondo i siti, sono variamente inclinate”.
COLATE LAVICHE
Nonostante al momento dell’escursione di Spallanzani non fosse in corso alcuna eruzione, il naturalista si trovò di fronte a dei corsi di lava provenienti dal cratere centrale e risalenti all’ottobre del 1787, che occupavano il versante occidentale del cono e sono indicati nella tavola con la lettera A:
[pp. 220-221] “Trovai l’opposizione di un torrente di lava, ch’io era in necessità di traversare, se giunger voleva a quella vetta fumante […] Giace all’ouest della Montagna, e a somiglianza dell’altra lava corsa nel Luglio del 1787, è sboccata immediatamente dal sommo cratere dell’Etna”.
COLONNA ERUTTIVA
Nubi vulcaniche
Anche al di fuori di una fase eruttiva, la sommità dell’Etna emette due colonne di fumo, che Spallanzani descrive come bianche ma che nella tavola appaiono scure:
[pp. 219-220] “Dalla sua cima si alzavano due bianche colonne di fumo; una al nord-est del monte, la quale era la più picciola, l’altra più grande al nord-ouest; e spirando allora dall’est un leggier venticello, ambedue facevano una curva all’ouest, indi a poco a poco si dileguavano ne’ vuoti spazj dell’aria”.
La colonna di fumo più piccola proviene dal versante nord-est (H), mentre la maggiore (F) è emessa da un’apertura situata sul piano di fondo del cratere (E) e si innalza verticalmente fino al suo orlo, prima di essere piegata dal vento:
[pp. 230-231] “Questa colonna, che alla sua origine aveva forse 20 piedi di diametro, veniva quasi per diritto impetuosamente vibrata, finché era dentro al cratere, ma fuori uscitane piegava all’ouest, spintavi da un leggier venticello, e più oltre innalzata si allargava in un amplo ma diradato volume. Quel fumo era bianco, e venendo cacciato in un lato quasi opposto a quello dove io mi trovava, non m’impediva il mirar dentro a quell’apertura”.
MUTAMENTI OROGRAFICI
Cono: distruzione
Cono: riformazione
Confrontando i resoconti di autori che avevano descritto l’Etna nei secoli precedenti, Spallanzani sottolinea la grande instabilità della configurazione della sommità dell’Etna, sottoposta a successivi crolli e riformazioni. La causa è da rintracciarsi nella struttura cava dei vulcani, che mina le fondamenta del cono. Tuttavia, l’apparente costanza dell’altezza del vulcano è un indizio delle ricostruzioni che avvengono in occasione di altre eruzioni:
[p. 252] “Sembra certo che le parti più eminenti dell’Etna, e così diciamo degli altri Monti che dalle loro sommità vomitan fuoco, abbiano le fondamenta su i fianchi della voragine che ad infinita profondità si estende. Ora in un forte scuotimento di terra, in un urto violentissimo di lava che tenti sboccare, nulla evvi di più facile che quelle fondamenta crollino e scoscendano, e che in conseguenza il cacume del Vulcano precipiti e in quel baratro si perda. Queste rovine però non hanno da tempo immemorabile prodotto un qualche riflessibile abbassamento alla sommità dell’Etna, conciossiaché le perdite cagionate da alcune eruzioni vengano riparate da altre che seguon dappoi”.
La forma del cono centrale presentata nella tavola è in realtà solo parziale, poiché esiste un’altra punta, con un altro cratere più a nord, che dà alla sommità dell’Etna la sua forma bicipite o bicorne più volte descritta dai contemporanei (pp. 234-235).
TEORIE E INTERPRETAZIONI
Modello anatomico
Nella tavola, il cono sommitale dell’Etna appare isolato dal contesto, su un fondo neutro, ed è sezionato per mostrarne l’interno, secondo un modello di stampo anatomico già usato da altri autori (si vedano, per esempio, De Fer 1705, o Athanasius Kircher nel caso del Vesuvio e dello stesso Etna).
Il taglio di una porzione del cono consente la raffigurazione della cavità del cratere. L’immagine non rende conto della forma a imbuto descritta da Spallanzani, né delle concrezioni sulle pareti interne, ma rappresenta il fondo orizzontale da cui si levano alcune fumarole e, soprattutto, la colonna di fumo più grande, emessa da un’apertura circolare (E):
[p. 230] “La profondità del cratere da’ suoi labbri sino al fondo sembra essere d’un sesto di miglio. Le pareti si osservano difformemente scabrose e lorde di concrezioni di color rancio, su le prime da me credute di solfo, ma in seguito riconosciute per muriato ammoniacale, riescito essendomi di staccarne alcune dai lembi della voragine. Il di lei fondo è formato di un piano quasi orizzontale, del giro circa di due terzi di miglio, esso pure in giallo listato, a cagione verisimilmente del medesimo sale. Ma cotesto piano, alla parte dove io era, manifestava una circolare apertura del diametro apparente di cinque pertiche circa, e appunto da essa si sollevava la maggiore colonna di fumo, quella ch’io vedeva già innanzi di pervenire al vertice dell’Etna. Tacio diverse tracce di fumo che a modo di sottil nebbia elevavansi da quel fondo e da più parti delle pareti”.
Nell’apertura sul fondo del cratere, Spallanzani scorge “una liquida infocata materia, che faceva un continuo ma lievissimo ondeggiare, bollire, aggirarsi, ascendere e discendere, senza però spandersi mai sul piano; e questa non era che la stemperata lava, che dal fondo dell’etnea voragine ascendeva fin là” (p. 231).
Orogenesi per accumulo
Come già osservato, l’immagine mostra le scorie e i frammenti di lava solidificata che si sono accumulati per dare origine al cono. Spallanzani era convinto che i vulcani si formassero per successive stratificazioni, eruzione dopo eruzione:
[p. 246] “[Se la lava] verrà a brani in immensa copia in alto scagliata dentro al cratere, rappigliatasi nell’aria e ricaduta nel fondo, produrrà in certe circostanze del successivo suo ammassamento un gran cumulo che per le leggi della gravita dovrà avere la figura di un cono”.
[vol. II, pp. 137-138] “Si manifesta che la lava posta alla superficie è accavallata ad un’altra, e questa a una terza, e così diciamo d’altre più interne […] Questa certamente è la genesi di quasi tutti i monti vulcanici. Da principio sono tenue cosa, proporzionati cioè alla mole della prima eruzione. In ragione poi del numero e dell’estensione di queste si aumentan di massa e di volume, e a capo di tempo acquistano considerabile ampiezza. Tale di fatti sembra essere stato il producimento dell’immenso corpo dell’Etna, tale quello del Vesuvio, dell’Isole di Lipari e di più altre ardenti montagne”.
Teoria localistica
Focolaio profondo
Benché l’incisione si concentri sul cratere centrale, Spallanzani rifletteva sulla grande frequenza di coni ed eruzioni laterali che caratterizza l’Etna. Queste erano generalmente da ricondursi alla materia infuocata proveniente dal medesimo focolaio profondo, che talora trovava uno sbocco più facile sui fianchi del vulcano, senza dover risalire fino alla cima:
[pp. 221-222] “Il centro di questo Vulcano probabilmente è profondissimo, e forse giacente a livello del mare. Ora è di gran lunga più facile, che la materia liquefatta dal fuoco, e posta in effervescenza da’ fluidi elastici, e in ogni parte per essi sospinta dal centro alla circonferenza, squarci qualche lato della Montagna, dove trova minor resistenza, e quivi ne esca formando una corrente, di quello sia che a ritroso della gravità salga la medesima da quell’imo fondo a tanta elevatezza, quanta si è il supremo cratere dell’Etna”.
Alcune eruzioni però – tra cui quella del 1669 – sembravano essere accensioni locali, senza un collegamento con il cratere centrale, e Spallanzani trovava “seducenti ragioni” per reputarle “eruzioni particolari, per nulla comunicanti con la sterminata fornace, che mette foce dentro al cratere” da esso indipendenti (pp. 272 ss.)
Modello tecnologico
In riferimento al potente fuoco dei vulcani, capace di liquefare e vetrificare le rocce, e alle esperienze di laboratorio:
[pp. xxiv-xxv] “Ma quale a un di presso è il fuoco nostrale equivalente a cosiffatti incendj? Ho discoperto esser quello delle fornaci da’ vetrai”.
Fabio Forgione
