Giovanni Alfonso BORELLI, Historia, et meteorologia incendii Aetnaei anni 1669, Reggio Calabria, Domenico FERRO, 1670. Incisione su rame. Disegnatore: anonimo. Incisore: Francesco DONIA.
Il volume di Borelli, pubblicato a Reggio Calabria nel 1670, è dedicato all’eruzione dell’Etna che iniziò nel marzo 1669 e fu una delle più devastanti della storia recente del vulcano. Borelli studiò l’eruzione e i suoi meccanismi, offrendone un’interpretazione che poteva essere generalizzata ed estesa al di là del caso specifico dell’Etna e che costituiva, pertanto, una delimitazione induttiva della vulcanologia, intesa come disciplina ben individuabile.
Dopo gli anni trascorsi a Messina come professore di matematica, seguiti dal trasferimento a Pisa, Borelli era rientrato in Sicilia proprio negli anni precedenti l’eruzione del 1669, evento che suscitò vasto interesse in tutta Europa e che diede luogo a un’intensa produzione di cronache, relazioni e rappresentazioni figurative. Fu su sollecitazione del cardinale Leopoldo de’ Medici – animatore dell’Accademia del Cimento da poco dissolta – e di Henry Oldenburg – segretario della Royal Society – che Borelli si accinse a scrivere una relazione dell’eruzione, che assunse poi la compiuta forma di volume. Pur trovandosi a Messina – e quindi, assai probabilmente, non essendo testimone oculare dell’evento – Borelli raccolse testimonianze, svolse misurazioni ed esperienze e propose la sua interpretazione dell’eruzione.
Il volume è composto da una historia, cioè una sezione descrittiva della topografia del vulcano e della sua storia eruttiva, e da una meteorologia – nel senso antico del termine, che includeva anche i fenomeni sismici e vulcanici – in cui vengono elaborati i dati osservativi. L’opera si distingue per un intento esplicitamente sperimentale, che punta a una valutazione quantitativa e a uno studio della meccanica dell’eruzione. L’autore cerca di interpretare la formazione e il moto della lava facendo ricorso a combustioni locali, opponendosi alle teorie di Athanasius Kircher e di altri autori che immaginavano la presenza di vasti e profondi serbatoi sotterranei di fuoco. Borelli propone invece una spiegazione locale, fisico-chimica e meccanica, fondata su osservazioni dirette, calcoli e analogie idrauliche, avvicinandosi così a una rigorosa concezione scientifica del vulcano come sistema dinamico naturale.
Il testo è accompagnato da una tavola che raffigura l’Etna con il sito dell’eruzione laterale del 1669 – nei pressi di Nicolosi – e la colata lavica che raggiunge la città di Catania e il mare. L’incisione è realizzata da Francesco Donia (Fran. Donia scul.), esponente di una famiglia messinese di argentieri e incisori, attivo tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento. Donia collaborò con Borelli anche per il De motu animalium, la sua ultima opera pubblicata nel 1680.
Per altre raffigurazioni dell’eruzione del 1669, si vedano Tedeschi Paternò 1669 e Winchilsea 1669.
Bibliografia. Baldini 1971; Morello 2001b; Guidoboni et al. 2014; Abate e Branca 2015; Abate e Branca 2016; Branca 2019; Branca e Abate 2019; Branca, Del Carlo, Behncke, Bonfanti 2025. Su Donia: Barbera 1992.
MAPPE
La tavola mostra una veduta a volo d’uccello del versante meridionale dell’Etna, in cui sono raffigurati l’edificio vulcanico e tutta la zona pedemontana fino alla città di Catania e al mare, secondo un modello iconografico diffuso già dal secolo precedente, del quale Abate e Branca individuano il prototipo nella vista di Catania di Antonio Stizzia pubblicata nel 1597. La città appare circondata dalla cinta muraria cinquecentesca di Carlo V, che fu fortemente compromessa proprio dalla colata lavica del 1669 e, più tardi, dal terremoto del 1693.
Il vulcano è in attività e si distingue in particolare la nuova bocca laterale (Nova Vorag.e) che si aprì nel marzo del 1669 in corrispondenza di quelli che Borelli chiama Monti della Ruina e che sono oggi noti come Monti Rossi, ossia due coni piroclastici sorti nei pressi di Nicolosi (H). Dal cratere centrale si leva una colonna di fumo che, secondo la descrizione di Borelli, fece la sua comparsa a partire dal 25 marzo.
La mappa segnala inoltre le modificazioni e le deformazioni del suolo nella parte più elevata dell’Etna (V, X) con l’apertura di una lunga fessura e una depressione del vulcano. Compaiono anche i centri abitati della zona e il percorso seguito dalla lava, che – con alcune diramazioni – percorse tutta la distanza fino a Catania e si gettò nel mare.
[p. 24] “et possint unica inspectione subsequentis schematis conspici loca omnia insignia ab ignis profluvio incensa, atque diruta”.
COLATE LAVICHE
La tavola raffigura lo scuro corso della lava che cominciò a sgorgare dalla nuova bocca dei Monti Rossi la sera dell’11 marzo:
[p. 18] “Eadem nocte ingens effluvium liquidorum saxorum haec postrema vorago evomere incepit, qui fluores postea ad aeris conspectum saxeam duritiem colorem tetrum, et nigricantem ad instar spumae ferri acquirendo, glaream illam efformabant ex diversis lapidibus, quam Sciaram vocant”.
Raggiunto il Colle di Mompilieri (G), la lava colpì La Guardia (I) e poi Malpasso (L). Un altro braccio, invece, perforò il Colle di Mompilieri causandone un parziale crollo, e distrusse la cittadina di Mompilieri dirigendosi verso Mascalucia (R).
All’inizio di aprile, con l’approssimarsi della lava a Catania, si tentarono operazioni di deviazione del suo corso, per salvaguardare la città, finché la colata arrivò a gettarsi in mare. L’eruzione e la colata cessarono definitivamente solo l’11 luglio.
Borelli descriveva le caratteristiche della colata lavica e le sue modalità di avanzamento secondo la meccanica dei fluidi, tenendo conto del consolidamento della sua parte più esterna mentre quella interna manteneva calore e fluidità. Tentava inoltre una quantificazione del volume totale di materiali emessi dal vulcano e giungeva alla conclusione che si trattasse di una mole pari a meno di una parte su 14.000 rispetto alla mole complessiva dell’Etna.
Convinto che la lava non fosse formata da zolfo e bitume – che avevano solo un ruolo nell’accensione dei fuochi sotterranei – ma da roccia e sabbia trasformate in un fluido vetroso, Borelli si trovava a doverne giustificare l’aspetto ruvido, scuro e opaco. La notevole differenza rispetto alla trasparenza del vetro si spiegava con il comportamento meccanico delle particelle che compongono la lava – disomogenee per peso, forma e consistenza – oltre che con il suo movimento e i diversi momenti di solidificazione della crosta esterna e della parte più interna.
COLONNA ERUTTIVA
Nubi vulcaniche
La tavola raffigura due nubi vulcaniche: una prodotta dalla nuova bocca, l’altra dal cratere centrale. Fin dall’11 marzo, la prima cominciò a emettere “immanes fumi globos” (p. 18) seguiti, nei giorni successivi anche da “immensam copiam cinerum” (pp. 20-21) che continuò a cadere sulle campagne circostanti per i mesi successivi, formando una spessa coltre. I fumi e le sabbie più leggere si spostarono invece fino alla Calabria e alla Sicilia meridionale. pp. precedenti per nube da nuova bocca.
Rimasto dapprima quiescente, il 25 marzo il cratere centrale iniziò la sua attività ed emise una “columna immensae altitudinis ex fumo, ex arenis composita, quae posteaaerem propinquum omnino obtenebravit per ambitum maioris partis Aetnae” (p. 22).
La colonna eruttiva appariva infuocata non solo per la presenza di vera fiamma, ma anche per le numerose particelle di sabbia ancora incandescenti che venivano lanciate in aria.
Pietre infuocate
Bombe vulcaniche
Come si nota nell’illustrazione, insieme alla nube di fumo, la bocca dei Monti Rossi scagliò in aria “ignitos lapides ad insignem altitudinem” (p. 18) e poi sabbie “una cum lapidibus diversae magnitudinis”. Pietre e rocce, in parte derivanti dal crollo del cratere centrale, furono lanciate anche dalla sommità del vulcano, ma non sono raffigurate nella tavola.
MUTAMENTI OROGRAFICI
Emersione di nuovi coni o nuove bocche eruttive
L’inizio dell’eruzione fu segnato dall’apertura di una lunga frattura sul fianco del vulcano (V), che saliva dalla piana di S. Leo verso il cratere sommitale, nell’area del Monte Frumento (B):
[p. 16] “Aperta est enim ingens, et prolixa terrae scissura ingenti sonitu, ac ululatu, cuius longitudo duodecim millia passus fere aequabat, latitudi vero inaequalis quinque, vel sex pedes non superabat, extendebaturque itinere aliquantulum tortuoso, sed a meridie versus Septentrionem, ascendebatque a planitie S. Leonis (vulgo, San Lio) versus supremum craterem usque ad planitiem collis, vulgo dictu Monte formento”.
Lungo questa direttrice si aprirono diverse bocche eruttive, che emisero però soltanto nubi di fumo. L’11 marzo si aprì infine la bocca principale con l’emissione di lava e poi di ceneri e sabbie che formarono i Monti Rossi:
[p. 21] “Insignem montem bicornem construxit, cuius ambitus duo milliaria superat, altitudo vero supra Orizontem perpendicularis 150 passus non excedit, eique ab incolis nomen montis Ruinae impositum est”.
Nella zona vicina a Catania, sono segnalati “spiragli perseveranti dopo l’estinzione della voragine” (Z). Nel testo, Borelli descrive i loro fumi caldi e li colloca in corrispondenza di pozzi irrigui, nei cui pressi la colata ha trasportato dello zolfo (pp. 27, 107 ss.).
Cono: distruzione
La tavola non permette di apprezzare i fenomeni di distruzione del cono centrale che Borelli narra nel volume. L’inizio delle attività nel cratere sommitale, infatti, causò una deflagrazione e un considerevole crollo, che portò a un allargamento della voragine. Nei giorni seguenti, la pioggia di sabbie contribuì a una parziale ricostruzione di un nuovo cono.
È tuttavia indicata una linea (X), lungo la quale avvenne una depressione della cima in seguito all’emissione dei materiali eruttivi, che portarono a una modifica morfologica dell’aspetto del vulcano.
Avanzamento della costa
Nei pressi della città di Catania è chiaramente osservabile l’avanzamento della costa determinato dalla colata lavica, che forma un nuovo promontorio delle dimensioni di un miglio:
[p. 26] “Opponebantur enim torrenti ignito aggeres ex ruderibus domorum, et saxis coacervati, qui optime cursum eius sistebant, et versus mare flectebant, ubi tandem excurrendo ingens promontorium ambitus unius milliaris intra mare ad Urbis conspectum coacervavit”.
Inaridimento del suolo
La campagna appare devastata dall’enorme colata lavica che, insieme alle piogge di ceneri ricoprì “vineta et arbusta” (p. 21). Borelli descrive in particolare la distruzione del vigneto dei Gesuiti presso Catania:
[p. 24] “Incedebatque vinea cum eius solo veluti innatando pensilis, quo usque superveniente altiori profluvio, materiae ignitae post paucos dies denuo a glarea repleta, et cooperta tota vinea fuit”.
TEORIE E INTERPRETAZIONI
Teoria localistica
Borelli si pronunciava chiaramente contro le teorie di tipo globalistico, a cominciare dalle tesi di Strabone che collegavano l’attività dell’Etna a quella di altre aree vulcaniche italiane. Diversamente da quanto era stato sostenuto da Kircher, era infatti convinto che non esistessero focolai a grandissime profondità. Ciò sembrava dimostrato anche dal comportamento della lava, che a causa della sua pesantezza spesso apriva bocche laterali e non aveva abbastanza forza per sollevarsi fino al cratere sommitale, dal quale l’uscita sarebbe stata più semplice. Borelli negava quindi l’esistenza di grandi cavità nelle profondità dell’Etna – che peraltro ne avrebbero minato la stabilità – e immaginava l’esistenza di focolai poco sotto la crosta del vulcano e lungo i suoi stessi fianchi:
[p. 42] “Haec, ni fallor, evincunt lapideam illam ignitam, liquefactamque materiam sedem non solum non habere prope superficiem maris, aut locum profundiorem; Sed contra gigni, accendi, liquefierique in ipsis montis lateribus paulo infra eius crustam, seu superficiem depressis”.
Inoltre, lo stato di quiete mantenuto dal cratere sommitale fino al 25 marzo – mentre la lava fuoriusciva dalle bocche dei Monti Rossi – indicava che la cavità del cratere centrale era restata isolata dalla nuova fornace fino a quando il nuovo fuoco non era riuscito a raggiungerla creandosi un passaggio:
[p. 42] “Praeterea quod praedicta cavitas, seu fornax nova non fuerit profunda, nec commercium, aut communicationem habuerit cum imaginario illo vasto puteo, patulo, et extenso usque ad sublimem, et antiquum craterem montis, constat ex his experientijs”.
Con l’ausilio di alcune figure, Borelli analizzava la disposizione delle bocche nate nel 1669 e tentava di dedurne la collocazione del focolaio, piccolo, stretto e superficiale (fig. 1). La fessura GF si era formata in direzione nord-sud e nella medesima direzione si erano aperte le bocche F, E, D, C e B, che avevano emesso solo fumo. Infine, si era aperta la bocca A, che aveva eruttato fumo, materiali piroclastici e lava per quattro mesi. La fornace non doveva avere grande larghezza e corrispondeva alla lunghezza e alla direzione della fessura.
Per spiegarne l’azione, Borelli ricorreva al paragone con un sifone che andava mentalmente messo in azione (fig. 2) e concettualizzava il fenomeno geologico attraverso la comunicazione visiva. La fornace doveva essere collocata più in alto di A, ma non troppo, altrimenti la lava sarebbe uscita anche dalle bocche più elevate (fig. 3).
Il focolaio risulterebbe così collocato notevolmente in basso ma, per escludere tale ipotesi, si poteva immaginare un altro tipo di sifone (fig. 4) la cui porzione AB fosse fessurata. Allo stesso modo, sull’Etna (fig. 3), la sezione GB funzionerebbe solo da canale o alveo per la lava, mentre la colata proseguirebbe poi per via sotterranea nel tratto BA fino a fuoriuscire dalla nuova bocca.
Teorie chimiche
Borelli interpretava in chiave chimico-fisica i fenomeni eruttivi, a partire da una spiegazione corpuscolare e cinematica del calore sotterraneo, generato della presenza di particelle ignee nello zolfo, nel bitume, salnitro e negli oli. Tale calore può alimentarsi nei luoghi sotterranei chiusi, dove le sostanze fermentano e si mescolano formando miscele simili alla polvere da sparo. Con il necessario intervento dell’aria si verificherebbero accensioni e la fiamma si potrebbe sollevare verso l’esterno. Era quindi necessario che le cavità fossero assai vicine alla superficie del monte e che esistessero pozzi o spiragli da cui l’aria potesse infiltrarsi.
Quanto all’accensione vera e propria, Borelli propendeva per un fenomeno simile al gocciolare dell’acqua sulla calce. La grande quantità di vapore che ne deriva sarebbe all’origine dei terremoti e delle spaccature che spesso accompagnano le eruzioni. Il grande calore farebbe poi passare allo stato fluido le rocce circostanti, che darebbero origine al magma, spinto verso l’esterno dalla forza propellente della miscela esplosiva.
L’attività vulcanica non era considerata perpetua: la lava emessa che si accumula alla base del vulcano, il consumo di bitume e zolfo e l’erosione e il dilavamento delle acque operano una lenta demolizione dell’edificio vulcanico, che va riducendo il suo volume. Senza contare l’inevitabile esaurimento dei depositi di zolfo, che determinerà l’attenuazione dei fenomeni e in definitiva lo spegnimento dell’Etna.
Modello tecnologico
In vari punti dell’opera, le accensioni sotterranee e l’eruzione sono paragonate alla polvere da sparo e ai cannoni:
[p. 27] “grandi sonitu, ac strepitu, (ut in machinis tormentarijs pulvis nitratus accensus efficere solet)”.
[p. 65] “Haec foramina vicem supplebunt spiraculorum machinarum bellicarum, quibus ignis applicatur, ut inde repat usque ad tormenti cavitatem, et inibi contentum pulverem pyrium accendat”.
Come già accennato, Borelli riteneva la lava di natura vitrea e la sua formazione era quindi paragonata all’attività delle fornaci dei vetrai (pp. 69-70).
Per spiegare la persistenza delle fiamme nel cratere sommitale, che talora restavano attive per lunghi anni, l’autore ricorreva invece all’esempio della lanterna, nella quale arde solo la parte più superficiale dell’olio:
[p. 121] “Quod vero praedictae flammae supremi crateris possint longa serie annorum perdurare, suaderi potest exemplo lampadis, in qua tantummodo superficies olei extrema flammam concipit, non vero internae, et profundiores olei partes”.
Fabio Forgione




